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Valerio Giorgetta, Paolo Portone, Montagne stregate. La lunga caccia alle streghe nell’antica diocesi di Como (XV-XVIII secolo), Roma, WriteUp Books, 2024, pp. 597 di Alberto Cadili, SISMED

Il volume è corposo, 600 pagine con estese note, quasi capitoli di approfondimento. Lo scopo è ambizioso: constatato il gran numero di pubblicazioni, ma anche l’assenza di un opus magnum di sintesi, gli autori ne creano uno riguardo alla antica diocesi di Como, uno degli ambiti più colpiti dalla caccia alle streghe e più ricchi di buone indagini locali (e non sarà mai abbastanza sottolineata la necessità che gli studiosi accademici si rapportino con quelli indipendenti, che hanno poi ricadute, a cascata, sul pubblico locale: una necessità della cosiddetta terza missione, più di altre forme spettacolari).

Il libro è sistematico non solo cronologicamente (un capitolo elenca i processi) e geograficamente (un altro descrive la diocesi), ma anche dal punto di vista degli approcci euristici. Alcuni episodi ritornano nei 13 capitoli da prospettive differenti: una sorta di TAC, di tomografia, in cui l’apparecchio radiografa il corpo da tutte le prospettive: istituzionale, biografica-prosopografica, e soprattutto storico-giuridica, storico-teologica e antropologica.

Tre piani di indagine si sovrappongono: il più inattingibile è quello, per così dire, sulla “realtà”, ossia sulle tradizioni e forse culti folklorici sopravvissuti in queste aree marginali. Si è scritto che inquisitori e trattatisti non sono antropologi, eppure il loro discorso dotto, pur incompatibile con l’oggetto in sé, inavvertitamente ne incorpora frammenti, che consentono di rilevare, al di sotto dello stereotipo stregonesco in via di formazione, che via via li fagociterà, alcuni retaggi del rapporto con il sacro peculiari delle valli lombarde rispetto a quelle del versante nord-occidentale delle Alpi: in quest’ultimo, di quanto poi sarà letto in chiave demoniaca, vi sono tracce di un volo estatico reso possibile da un unguento; invece in Lombardia ritornano convergenze sfumate su una signora del gioco, entità positiva forse legata all’abbondanza, al centro di una bona societas (mentre “strega” è un apporto colto ricavato da volatili ematofagi dell’antichità).

Più documentato è il piano della diabolizzazione di simili retaggi: la creazione di una leggenda, che via via appiattisce le differenze per definire lo stereotipo duraturo di una setta di malefiche (per lo più donne): adoratrici del diavolo che cumulano tutti gli elementi: volo, unguenti, malefici, orge notturne, ecc. I primi attori sono i riformatori cattolici del tardo medioevo, innovatori e moralizzatori razionalisti che marginalizzano la tradizionale derubricazione dei retaggi folklorici a superstizione e illusione (seppur diabolica): tutto ora è reale. Tale creazione inquisitoriale o comunque riferibile agli Ordini Mendicanti (ancor più Osservanti) nella diocesi comasca è precoce (inizio XV secolo), in corrispondenza della spinta alla confessionalizzazione in aree rustiche e denigrate, ben precedente al Malleus di Kramer (che anzi cita dei processi a Bormio; sovente la trattatistica si rifà al caso comasco). Essa accende i primi roghi. E ancor più quando, nella seconda metà del Cinquecento, il Sant’Uffizio adotta una linea più prudente, nelle valli comasche sfuggenti al controllo di vescovi e inquisitori (sottoposte a Svizzeri o Grigioni protestanti), i tribunali laici, senza curiosità teologiche ma rivolti al delitto del maleficio, recepiscono lo stereotipo chiericale, e (assecondando le comunità) ordinano veri massacri. La strega deve corrispondere allo stereotipo e, grazie a interrogatori suggestivi, tortura e procedure frettolose alimentate dalle chiamate in correo, le streghe confessano di corrispondervi. Il clero locale (talora ispirato allo zelo borromaico) partecipa alla ricerca dei rei: nei suoi livelli bassi anche con pratiche superstiziose e esorcismi: il demone possessore diviene teste contro la strega che gli ha fatto prendere possesso dell’indemoniato. Il vescovo di Como e gli inquisitori, presso cui gli accusati cercano riparo, si oppongono, ma non sono in grado di avocare i processi al foro ecclesiastico e di far rispettare a corti cattoliche o riformate la nuova procedura. La storia della stregoneria dal XV al XVIII secolo nel comasco è la storia, solo apparentemente statica, dapprima di costruzioni teologico-giuridiche e poi del loro inserimento in una difficile situazione geografico-politica.

Terzo, non meno problematico livello è quello interpretativo, che vede un dialogo non sempre facile tra medievisti, modernisti e antropologi. I primi in Italia sono meno presenti, forse per il ritardo della caccia nella Penisola rispetto a queste aree alpine (va rilevato che fino alla metà del XIV secolo l’accusa di idolatria e stregoneria compare a livello alto, in Italia nei processi di Giovanni XXII contro i ghibellini, come accusa cumulativa e secondaria, tanto che nelle sentenze di assoluzione nemmeno compare più; mentre contro guaritrici – un esempio a Bergamo a inizio Trecento – e usurai, bestemmiatori, scettici, negromanti, prevalgono penitenze o multe al limite dell’estorsione). Vi sono poi approcci unilaterali, pur produttivi: tra gli altri in chiave di “grande paura”; di misoginia; di acculturazione a opera di una cultura sorgente e dominante verso una di destinazione, tra cui in questo caso vi sono un dislivello e una imposizione violenta, che negli interrogatori è palese (mentre il presupposto di una identità di credenza tra giudice e strega è solo apparente nelle confessioni). La caccia non nasce spontaneamente da una arcaicità montanara, bensì da una matrice colta che all’interno di essa essa individua una nuova forma di eresia.

Per la diocesi di Como aiuta il paradigma interpretativo rappresentato dal modello alpino della stregoneria, qui adottato a fondamento dell’opera, che consente di connettere questi approcci all’interno di una cornice sociale e culturale e di una realtà geografica, religiosa e istituzionale complessa. Ciò permette di evitare la genericità e di individuare una specificità esaminabile a tutto tondo, che in tal modo è proficua anche in quanto passibile di comparazione con analisi sistematiche in differenti aree (della cui comparazione lo stesso esame della specificità comasca si alimenta).

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