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Pino Acerbi

Il barone rampante di Calvino preferiva la consapevolezza di pochi alla trasformazione di molti. È la storia – tragica per certi versi – di Giuseppe Acerbi,  che come molti eroi di Calvino ha vissuto il suo genio nella liminalità di un universo immaginario.

Un corpo dimenticato in una casa dove abbondano gatti e qualche cane, ritrovato dopo quasi un mese dal trapasso. Non siamo in una anonima metropoli da un milione di abitanti, ma in un minuscolo paesino da un centinaio di anime: nessuno si è accorto di nulla, in morte come in vita. Nessuno si era accorto di chi realmente fosse Giuseppe («Pino» per gli amici) Acerbi, geniale orientalista, scrittore – e in gioventù anche esordiente regista –, ma per i compaesani solo una presenza «strana», marginale, se vogliamo servirci di questo termine pur non avendone ancora valutato appieno la portata.

I.

Al Liceo, Giuseppe Acerbi è già un ribelle; siamo negli anni ’70, quelli della contestazione, le sue provocazioni sono raccolte da un importante e allora esordiente giornalista musicale, Mario Luzzatto Fegiz. A queste prime esperienze faranno seguito tra il 1971 e il 1977 i classici viaggi in Oriente (India e Iran) e in Africa, e la produzione di due lavori cinematografici: un primo intitolato Salta nel mio sacco (in coproduzione), ispirato a una fiaba della raccolta di Calvino, in cui la visione di una bellissima creazione mitologica, una fata, prescinde dal conseguimento dell’immortalità: «T’ho vista. Muoio contento» dice il protagonista – anticipando molti tratti biografici del nostro – e, dopo aver bruciato bastone e sacco perché non cadano in mani sbagliate, muore contento. A questa prima opera segue un film in 16mm totalmente autoprodotto ispirato al mito anatolico (ittita) di Kessi. Il film, originariamente girato in b/n (negli anni ’90 rielaborato anche in una versione ricolorata) verrà presentato in diversi festival, senza purtroppo ricevere l’attenzione che merita. Qualche anno dopo, riproporrà altri materiali filmici sotto forma di sceneggiature a svariati concorsi, anche questa volta senza ricevere apprezzabili riscontri. Si tratta di testi quali Le 10.000 lire e… il Re del Mondo (2000), Nelle pieghe del silenzio (2000) e Una notte di rosso splendente (2001).

Gli anni che vanno dal 1978 al 1984 vedono l’Acerbi impegnato ad approfondire le tematiche legate alle religioni e alle filosofie orientali. Si laurea all’Università di Venezia Ca’ Foscari in Indologia con il prof. Gian Giuseppe Filippi, con una monumentale tesi sulle origini indiane (principalmente il Mahābhārata) del Kālacakra. Una tematica legata all’avvicendarsi dei cicli cosmici, che segnerà in maniera profonda gli studi a venire. Dopo una breve collaborazione con il Dipartimento di Lingue e Letterature Orientali sempre dell’Università di Venezia, Acerbi inizierà una intensa attività pubblicistica che non sempre avrà riscontri positivi da parte degli editori.

Acerbi studia le fonti mitologiche del Medio ed Estremo Oriente con l’intento di svelare relazioni e analogie con l’epica del Medioevo romanzo. Una dimensione «comparativa» nella quale gli avvicinamenti e i paralleli assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leggendari hindu e buddhisti legati alla versione orientale del Castello del Graal, cioè il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il «Re Pescatore» lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in tante pubblicazioni. Basti ancora ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: un’epifania del dio Brahmā, un «Pescatore di Luce» talora duplicato nell’Avatāra del dio Viṣṇu noto come il «Pesce d’Oro», funzione in origine rivestita da Brahmā. 

È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore. Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il «ricordo» di una forma ideale di esistenza e il «ritorno» a una condizione di perfezione interiore. Una luce intrappolata in una nuvola nera che non reca pioggia e che Indra lascia uscire all’aperto; un mito indo-iranico sulla liberazione delle acque che diventa metafora dell’esistenza. L’Acerbi faceva anche notare come parte del suo argomentare fosse presente in un misconosciuto film sovietico, Sadko, del 1953, diretto da Aleksandr Ptushko, una storia tratta dall’opera di Nikolai Rimsky-Korsakov, che raccontava le avventure di un personaggio mitologico che da Novgorod partiva alla ricerca dell’uccello della felicità. Il film, tornato in auge anche grazie alla acribia di Enrico Ghezzi che lo trasmise nel suo spazio notturno su RAI3 «Fuori orario», ripercorreva temi cari all’Acerbi, come la pesca del «Pesce d’Oro» favorita da una Oceanina, una benigna creazione marina, che aiutava l’eroe nella ricerca della Fenice e attraverso un autosacrificio ne favoriva il ritorno alla patria originaria. 

Di fatto l’opera cui l’Acerbi attese per anni, Il Re Pescatore e il Pesce d’Oro. Aspetti della Rivelazione Primordiale,riscriveva tutte queste mitologie in una dimensione unitaria. In una prima stesura, l’indagine era estesa ai popoli etnologici in un itinerario simbolico che costituiva anche la ricerca dell’origine comune di un mito capillarmente diffuso nella storia dell’umanità: il ritorno a una condizione di «primordialità» e l’accesso a uno stato di beatitudine transitoria usualmente definito «paradiso». La storia delle religioni, nella sua orba ufficialità, ha da tempo rigettato il suddetto metodo di ricerca, essendo più interessata a evidenziare le differenze che le analogie. Una soluzione estrema questa, che ignora, per paradosso, il fondamento mitico del metodo esibito dall’Acerbi.

L’immagine del pesce, per un’ovvia specularità, richiama il fluido che egli domina e in cui esso vive, l’acqua. Miti e simboli sono i veicoli prediletti nei quali si dispiega e viene rappresentato un itinerario spirituale. Spesso culture differenti hanno descritto esperienze religiose, interiori e mistiche, utilizzando un’identica struttura simbolica o mitica. È ad esempio possibile interpretare la menzione che la liturgia funebre latina, la Missa Defunctorum, fa del lacus profundus come connessa da un lato all’idea del viaggio dell’anima nel post mortem attraverso le regioni delle tenebre, delle poenae infernis, fino alle rive d’un oceano oscuro che è il mare della morte, l’abisso fluido, indefinito, in cui essa deve transitare per accedere purificata al Paradiso. Mentre da un altro si coniuga al valore negativo e demoniaco che il rito battesimale riveste nello gnosticismo, un universo «religioso» per certi versi parallelo al cristianesimo nascente, ma nella sua essenza autonomo da questo. Importante in quest’ultima accezione, sicuramente la più arcaica, è la Parafrasi di Sēem, un documento gnostico fra i più complessi ed intricati tra quelli emersi dai cocci della giara nella quale furono ritrovati, negli Anni Quaranta del secolo appena trascorso, i codici manoscritti di Nag Hammadi.

Non c’è dubbio che a Nag Hammadi, come aveva preconizzato l’Acerbi, la lista dei Salvatori commentava anche le dieci manifestazioni «avatariche» di quel yazata iranico della vittoria che si pregava in Yasht 14 (= Bahram Yasht). Si pregava il primo raggio di luce dell’aurora e il rinnovamento futuro. L’uccello paradisiaco era il raggio che illuminava le nuvole, e le fecondava come un Salvatore. Le nuvole sono intransitive: si trasformano.

II.

L’opera dell’Acerbi era anche suggestionata dalle creazioni ibride: a proposito del Sagittario segnalava una lettura integrata del Mithraeum di Ponza. Nella volta con lo Zodiaco, uno dei Venti corrispondeva al segno del Centauro, pronto a colpire con le sue frecce le spire del Drago disposto nel cerchio interno. Al polo opposto, in Aries, c’era l’altro dio dei Venti. Entrambi indicavano il cammino della generazione e della rigenerazione. In tal caso, l’Orsa che guardava verso Oriente rappresentava il «ritorno alla madre», ad una nuova nascita (Manilio 5, 696: Orsa, prima lux mundi). L’Axis, che metteva in moto il ciclo cosmico. Il soffitto del Mithraeum suggeriva forse un Oroscopo, che mirava a calcolare l’esatta posizione delle due madri. Come nello Zodiaco di Dendera. Restava il fatto che l’Aiōn zodiacale ricompariva nella scultura monumentale delle chiese romaniche. In ordine di tempo: dapprima con la Puera del Cordero nella chiesa di San Isidoro a Leon (1110 circa), quindi alla Sacra di San Michele (1130). In mezzo i grandi rilievi con i Segni Zodiacali (Leone e Ariete), ora nel museo degli agostiniani a Tolosa. Sempre sul cammino di Santiago, ad Arles, capitale della Provenza, c’era un Aiōn giovanile con in mano uno scettro e nell’altra una ruota zodiacale. Ancora, io e l’Acerbi visitavamo l’Ouroboros sull’architrave a Montechiaro d’Asti, simbolo di rinascita, e quelli sui pilastri esterni all’ingresso dello Scalone dei morti nella Porta dello Zodiaco alla Sacra, che introducevano al tema del Signore dell’Anno, a guardia dell’ordine zodiacale. Mentre la corrispondenza Michele/Orione era confermata dal particolare della lesena di sinistra con Orione armato di pugnale e freccia, riciclo cristiano-zodiacale del Mithra iranico.

L’antico calendario vedico, come ha dimostrato bene il Tilak in The Orion or Researches into the Antiquity of the Vedas tradotto e curato dall’Acerbi per la ECIG (Genova 1991, poi WriteUp, Roma 2023), era ideato sul sistema sacrificale e aveva lo scopo di accertare i momenti stagionali più opportuni al cerimoniale. A loro volta i riti sacrificali erano fondati su una concezione provvidenziale del cosmo e dei fenomeni naturali, in base alla quale l’imitazione dei medesimi doveva avere uno scopo essenzialmente spirituale.

La matrice principale del rituale era la consapevolezza che il mondo, cosmologicamente parlando, non era nato dal caso ma da un atto di amore primigenio. Si narra nei Veda di un mitico incesto cosmogonico tra Prajāpati = Orione, il Padre di tutti i viventi, colui che ha presieduto allo Yajña primevo; il mondo intero costituiva di per sé un perpetuo ed immane atto sacrificale.

L’interiorizzazione del sacrificio avviata dalla rivoluzione upaniṣadica avrebbe determinato quell’oblazione del proprio corpo, essenziato dai fluidi sessuali e ravvivato dal fuoco del tapas all’origine dei più tardi sistemi tantrici e vajrayāna. Un’acqua luminosa, trasmutata in elixir di lunga vita, che combinava l’interazione del principio lunare e solare, seminale e sanguigno.

 Il mercurio alchemico altro non era che il seme divino. Nell’India medievale il simbolismo sessuale divenne un linguaggio comune condiviso dalle sintesi hathayogiche, tantriche e appunto alchemiche. Al versante egizio e bizantino dell’alchimia si ricordava la figura di Ostanes, e sotto un altro profilo, l’erotica manichea e catara trovò il suo pendant fin nel lontano Assam, ai piedi del Bhutan, che fu, con il Gandhara, la terra tantrica per antonomasia (X-XVII sec.).

 Osservando i rilievi della Porta dello Zodiaco alla Sacra di San Michele, l’Acerbi notava come le raffigurazioni astrali rappresentassero altrettante stazioni per le anime, che gli angeli dovevano condurre al giudizio. Ciò era evidente dalle parole scritte da Niccolò, il grande e itinerante scultore: vos qui transitis sursum vel forte veditis («voi che salite in su o anche scendete»), vos legite versus («leggete le sculture»). Non c’è bisogno di richiamarsi alle Porte equinoziali e solstiziali di Porfirio (cannibalizzate dal Guénon), perché i riadattamenti monastici erano frequenti. La Visio Pauli con inferni e paradisi circolava dopo il Mille. Inoltre c’era una visione di Santa Ildegarda, riguardante Pianeti e Segni Zodiacali, a evocare i tumulti della condizione umana sotto i cieli. I capitelli che si vedono uscendo dalla Porta dello Zodiaco riportano tutta una serie di antitesi, simboli del contrasto tra Caino e Abele, Sansone e il tempio, le donne e i serpenti. Dunque, peccato e vittoria. La Porta doveva introdurre l’antico battistero, dove riviveva una liturgia astro-angelica.

III.

In un articolo dedicato ai miti agricoli delle origini, l’Acerbi figurava un Adamo nutrito dai soli frutti del «Giardino» paradisiaco; come attestato dalle Sacre Scritture, lo stato edenico dell’Uomo doveva evidentemente essere una condizione di benevolenza nei confronti di tutte le creature; quasi un riflesso esteriore della sua beatitudine interiore, trovandosi egli ad essere, per così dire, in una posizione di centralità rispetto al Creato, ovverosia di mediazione tra il Cielo  e la  Terra. L’Acerbi ignorava la colluttazione angelica che stava sullo sfondo di questa beatitudo. Prova ne è l’atteggiamento quasi devozionale provato verso i materiali monastici.

Assieme visitammo l’Abbazia di Rivalta Scrivia che nel Quattrocento fu dotata di affreschi, che la tradizione (secondo la narrazione di Don Modesto, custode del sacro edificio) attribuiva a degli ex-voto. Alcuni di questi affreschi, come il sant’Antonio con campanella e ardhapatakamudrā (d’origine indiana, presumibilmente buddhista) della navata di sinistra, appaiono riprodotti in altri edifici sacri del Tortonese non distanti dal luogo.

I miti fondanti, come la ragione poetica, sono importanti, servono a dare forma a civiltà degne di questo nome. Il mito è pensiero. Volgersi al mito (in senso vichiano) lo faceva già Leopardi: «Io nel pensier mi fingo sovrumani silenzi e profondissima quiete». Fingere non significa ingannarsi. L’io poetico non vede il proprio contenuto come illusorio, ma come «pensiero» che oltrepassa gli spazi finiti della propria vita. Solo la forma pura della poesia può innalzare l’esistenza al di sopra del nulla. Poesia e filosofia non si escludono come osserverebbe pure l’Heidegger de-nazificato (o quasi).  Ecco perché l’Acerbi era perplesso dinanzi alla freccia buddhista di Malunkyaputta, che rendeva inutile il farsi tante domande.

C’era il rischio del primato della prassi, neanche tanto della Ragion pratica, poiché il principio-ragione finiva col produrre solo verità illusorie (come è successo e succede ai post-moderni). Quelli del ’68 come Giuseppe sono andati sul Gange per le stesse conseguenze. Il punto di deriva erano i libri di Fritjof Capra che sintetizzò quel periodo, contestando il paradigma moderno incentrato sulla tecnica. Una tesi paradossalmente antiquata perché la technē ha preso alla grande il sopravvento sull’epistēmē della metafisica. Una combinazione di biotecnologie anti-invecchiamento e robotiche capaci di adeguarsi fino in fondo sia all’evidenza del divenire nichilistico, sia alla volontà di potenza dei nostri contemporanei. Non credo l’Acerbi condividesse le acquisizioni del transumanesimo.

Lo scopo della tecnologia sarebbe l’ascesa al potere delle macchine «intelligenti», quindi il formarsi all’interno delle creazioni robotiche di una qualche «coscienza». Di fatto le narrazioni e le visioni della cosiddetta «fantascienza» potrebbero ritenersi letteratura profetica, più che narrativa d’anticipazione… Vero che la fantascienza (ma non quella avveduta di Ridley Scott e degli artefici di Matrix) tende a confondere l’intelligenza con la coscienza e presume che i computer futuri per superare la nostra intelligenza debbano diventare coscienti o autocoscienti che siano – come quando in Blade Runner Dekkart (cioè Cartesio) si innamora dell’androide dal volto furbo e seduttivo: non viceversa. Nel mondo reale non può essere così. L’intelligenza che calcola e, dall’altro lato, la coscienza sono fenomeni ben distinti e se ne accorgeva l’Acerbi quando doveva confrontarsi con i suoi computer, eternamente «impallati» dalla sua maldestria (che era anche la mia). Noi umani siamo mammiferi, non macchine (anche se da centomila anni non c’è impresa umana che non sia associata a invenzioni tecniche). Noi mammiferi risolviamo e decidiamo problemi in base a ciò che sentiamo emotivamente. L’intelligenza artificiale li risolve in altro modo. Siamo in ciò più vicini ai gorilla che a lavatrici intelligenti.

Di questo passo l’homo sapiens scomparirà. E lo farà perché gli emuli del Dr. Frankenstein cambieranno la natura stessa dell’umanità, alterando la genetica e l’epigenetica. E non perché macchine e umani saranno in rete fin dalla nascita. Certo, come avveniva nello gnostico Zostriano di Nag Hammadi,la coscienza verrà disgiunta dai suoi supporti organici (mantenendo le emozioni che somatizzano), si creerà cioè un corpo astrale che potrà muoversi nel cyberspazio della rete senza vincoli fisici.

Si raggiungerà cioè una mente non-duale (totalmente fusa con altre macchine), diversamente da quanto è accaduto da millenni con la Prajñā buddhista o con Angelo Silesius (senza macchine). Ora non si sa cosa accadrà. Dobbiamo abituarci all’impermanenza (Buddha e gli storicisti sembrerebbero d’accordo). Certo che accrescendo contemporaneamente la potenza dell’uomo, si potenzierà la sua angoscia.

IV.

Androidi sofisticati, macchine o mammiferi: dell’opera di Giuseppe Acerbi voglio celebrare il suo porsi come «Altro» rispetto allo sconquasso della storia religiosa quale strumento di potere, in questo vicino ad Aldous Huxley che scrisse nel 1931 il Mondo nuovo, un mondo distopico pronto a condensare tutto il pessimismo sulla forza manipolatrice della tecnologia che stava armando i regimi totalitari. Da quel mondo non si sfuggiva. Eppure la resilienza o la plasmabilità del nostro cervello (in realtà solo della corteccia superiore) forse ci aiuteranno, anche se diventeremo degli ibridi, a sapere cosa volere da noi stessi. È il «conosci te stesso» ermetico il luogo da dove ripartire.

La grande trasformazione (c’era un libro famoso del ’44 che Giuseppe sempre citava) si avvia a diventare la quarta rivoluzione industriale appena iniziata. La storia è alla «stazione di posta», sta cambiando cavalli, e poi ripartirà. Per ora ci accontentiamo dell’Internet di massa, con la realizzazione di «individui manipolati dai social media» in cambio delle loro esternazioni emotive su Facebook (dove ognuno esibisce tanta vita privata). Il guaio è che oggi dobbiamo fare i conti con la disoccupazione di massa provocata dall’automazione e robotizzazione. Non possiamo prevedere se le condizioni personali saranno migliori o peggiori: ci si adatterà. È certo però che non solo le condizioni di vita saranno diverse, lo saranno gli stessi individui. La loro anima. Molte funzioni cognitive, incluso il far di conto e la memoria storica degli eventi saranno sostituite dall’intelligenza artificiale. Un vaticinio che era nella sensibilità di Giuseppe Acerbi.

La nostra specie come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quarantamila anni è destinata a scomparire. Siamo già nella post-Histoire. Il passaggio dal gorilla all’homo habilis (due milioni di anni) fu anche dovuto alla capacità di mentire e di mascherarsi. Poi, dal naso schiacciato dei Neanderthal si passò al naso adunco e infine a quello di Pinocchio uno e bino. On-line non ci sono fate dai capelli turchini che cercano di dare la medicina amara che serve. Ci sono alieni e replicanti che parlano direttamente al popolo.

V.

Nell’opera dell’Acerbi analisi sociologica, simbolismo cosmico e simbolismo animale assumono valori differenti, sebbene la temporalità sottenda entrambi. Nei primi tali valori sono espressi da una elaborata affabulazione mitopoietica, mentre nei secondi l’affabulazione coincide con una visione intuitiva e istantanea della realtà fenomenica. È una personale revisione dell’esemplarismo platonico, secondo cui gli oggetti, i fatti e gli avvenimenti altro non sono che illustrazioni, esempi, in occasione dei quali ha luogo l’intuizione di essenze. Intendendo come essenza ciò che si manifesta attraverso il fenomeno o ciò di cui il fenomeno è manifestazione.

Cosa più che comprensibile passando ad un altro livello, o per meglio dire alla zona intermedia tra cielo e terra, chiamata simbolica. Nella mentalità giudaico-cristiana arcaica il cielo, «firmamento», era percepito in qualità di veste, limite o specchio della trascendenza divina; lo stereōma, l’intermondo onirico, l’involucro che separa le essenze divine e avvolge l’universo somatico. E ancora, Filologia di Marziano Capella che prega inginocchiata presso un murum che divide la sfera sensibilis da quella intellectualis e che ricorda i sette stereōmata, i firmamenta corporea, anche se costituiti di finissimo etere, degli Oracoli caldaici (fr. 57) e la nozione gnostica di horos, il «limite» gettato tra Mondo della Luce e il Vuoto della Tenebra. Anche lo gnostico Basilide conosce qualcosa di simile nell’idea di phragmos.

In tale ambito fenomenico rientrava comunque tutto ciò la cui esistenza aveva un’evidente natura ciclica (l’aurora, il tramonto, la pioggia, il vento, ecc.); insomma, quegli accadimenti che la logica moderna induce a classificare, in maniera assolutamente distinta, come fenomeni atmosferici, biologici e così via. La percezione di questi fattori ambientali concepiti come enti non era dunque intesa in senso prettamente fisico, ma si riallacciava ontologicamente a determinate forme archetipali. Di qui l’istantaneità del simbolismo animale, che assumeva nella forma fisica la manifestazione della trascendenza. Tutto ciò che era terrestre rispecchiava, in quanto soggetto a misura, il divino, e il culto sottolineava questa semplice verità: i templi riproducevano il cosmo ed erano orientati verso un preciso punto celeste. La terra dei miti e dei riti corrispondeva allo Zodiaco, all’inesorabile fluire del tempo all’interno di una frazione di esistenza.

Il luogo della libertà è ben diverso dalla semplice opposizione, e non si trova neppure mediante la fuga. La vicenda di Giuseppe Acerbi, ribelle alla filologia ingessata e alla storia delle religioni incardinata su forme avulse del sentire, è emblematica per chi da un punto di vista «illuminato» ha tentato di creare una nuova ortodossia, questa volta fondata su norme editoriali e diacritici. Acerbi non ha mai accettato tutto questo, anche se i suoi lavori esprimono una acribia e una precisione infinite.

Se è vero, come pensavano Buddha, Platone e Shakespeare, che l’universo è un gioco di illusioni, e noi ne siamo le infime ombre teatrali, allora ogni evento si dissolve nella propria vacuità. Ma gli umani fantasticano, delirano, giocano senza sapere cosa stanno realmente facendo, esibiscono il gigantesco ego, ripongono la loro fiducia nel progresso, si credono immortali. Nell’agosto del 2007, l’Ufficio statale cinese per gli affari religiosi approvò l’«ordinanza numero cinque», una legge che doveva entrare in vigore il mese successivo e che regolava «le misure di gestione della reincarnazione di Buddha viventi nel buddhismo tibetano». Questo «importante passo per istituzionalizzare la gestione della reincarnazione» stabiliva le procedure attraverso le quali si compiva la reincarnazione – in breve, proibiva ai monaci buddhisti di reincarnarsi senza permesso governativo: nessuno fuori della Cina poteva influenzare il processo di reincarnazione, e solo i monasteri in Cina potevano fare domanda per averne il permesso.

VI.

Gli scritti di Giuseppe Acerbi tracimavano genialità, ed era un paradosso, poiché a tutti i costi voleva allinearsi sul confine della «tradizione»; un intento ovviamente fallimentare, dal momento che presto l’omonima rivista lo estromise. Si sentiva straniero al mondo, non alla natura o al Dio cosmico; a suo modo seguiva il verbo induista, non nichilista; aveva rinunciato a coltivare la complessità del mondo illudendosi di trasformare la propria interiorità. Un viaggio molto difficile oltre la dimensione storica, per far rinascere l’homo naturaliter religiosus, dogmaticamente svincolato dal tempo.

Al contrario la contemporaneità vive un approccio cognitivista in un campo di discussione molto ben visto dai teologi, perché si parla di religione rigorosamente al singolare. Molto accettato dal modello di educazione anglosassone, che ritiene l’educazione religiosa imprescindibile ad un buon cittadino, e integrerebbe l’assunto di un orientamento pluralistico e multiculturale.

 Nella storia delle religioni nostrana le cose sono state ancora più complicate dalla rimozione del modello pettazzoniano e dalle diverse anime che hanno segnato lo studio accademico dei fatti religiosi. Quel Pettazzoni, laico e socialista, che guardava alla filosofia, non solo crociana, con cura e attenzione. Così come Tucci era particolarmente versato nelle discussioni di logica indiana. Aperti a un modello di razionalità che includeva la «relazionalità delle forme distinte», con uno storicismo fondativo che non cadeva nei relativismi e che sapeva dialettizzare filologia e fenomenologia. Si capisce che era un modello lontano dalle ricerche dell’Acerbi. E invece il punto sta proprio qui, nel fatto che i filosofi ancor oggi vengono visti fare uso di astrazioni, pronti a rivendicare una universalità contraddetta dal loro stile di vita ideologico, intellettualistico e fin troppo arrogante. A riprova che il sentimento metafisico è razionalizzabile come ogni sentimento senza snaturarne l’essenza. Come può vedersi, i dilemmi sono molti e tutti escludenti una concreta offerta di conoscenza. Viviamo un’epoca di de-sublimazione.

Ezio Albrile

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